La promozione del benessere sociale.Progetti e politiche nelle comunità locali cura di Marco Ingrosso
Franco Angeli editore, Milano, 2006
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(estratto)
Ripensare il benessere sociale: teorie e politiche
di Marco Ingrosso
1. L’emergere di nuovi rischi
In questo intervento vorrei affrontare la questione delle nuove sfide o
nuovi rischi che mettono in crisi il benessere collettivo in questa fase storica,
che ho definito, in altra sede, era planetaria, e sviluppare il tema delle politiche
(in particolare di quelle locali) che possono contrastare questi fenomeni.
In questo quadro vedrei un ruolo rilevante di un nuovo servizio sociale europeo
capace di fungere da coordinatore non solo di interventi settoriali verso i
vari soggetti sociali in situazione di difficoltà, ma anche in grado di assumere
le questioni dell’integrazione, dell’appartenenza, del benessere sociale in termini
di rapporti fiduciari e comunicativi fra gruppi e fra culture. Per gli aspetti
di fondo mi rifaccio al mio saggio Senza benessere sociale (2003) che affronta
ampiamente queste tematiche, ma al contempo vorrei allargare la riflessione
tanto agli aspetti teorici del benessere quanto agli orientamenti operativi
per sostenere che:
• è necessario dotarsi di una nuova elaborazione e pratica del benessere
sociale;
• è necessario progettare nuove politiche sociali che abbiano un forte
fondamento contestuale nelle comunità locali e, al contempo, sappiano
coordinarsi in sede europea e internazionale lanciando un ponte verso
altri territori con cui le relazioni si stanno sempre più intrecciando.
I nuovi rischi per il benessere nell’era planetaria emergono in tre aree della
vita sociale:
a) quella delle condizioni di vita che è investita dai processi di globalizzazione.
La globalizzazione dei mercati di consumo e di produzione
sviluppa una forte richiesta di mobilità e flessibilità delle imprese, ma
anche dei lavoratori. Innesca altresì forti dinamiche di consumo, che
sono tuttavia altamente polarizzate fra lusso e povertà, fra “spreco” privato
e restizioni nelle prestazioni pubbliche. Si assiste quindi ad una tendenziale riduzione della protezione sociale e ad una crisi del welfare
tradizionale, sempre meno sostenuto da orientamenti solidaristici;
b) quella dei rapporti e relazioni sociali che registra forti spinte verso
l’individualizzazione. Tale fenomeno assomma tendenze diverse che
promuovono l’individuo a unità sociale fondamentale nel campo formativo
ed economico, ma lo pongono in un regime di concorrenzialità
permanente, allentano i legami sociali e le appartenenze - con la messa
a rischio dell’inclusione e della coesione sociale -, e sviluppano forti
dinamiche di controllo da parte dei grandi apparati sociali;
c) quella della cultura e comunicazione, la cui tendenza dominante è
quella della diversificazione. Anche in questo caso ci troviamo di fronte
ad un fenomeno complesso che presenta diverse sfaccettature fra cui
quella della pluralizzazione e soggettivazione dei paradigmi scientifici,
etici e religiosi, quella della multiculturalità e quella della multimedialità.
Si tratta di una situazione in cui a una grande articolazione e abbondanza
di stimoli comunicativi non corrisponde una capacità integrativa
e interpretativa adeguata, generando vaste percezioni di anomia, disorientamento,
conflitto.
Le tre aree s’influenzano e si attraversano fra loro. Nuove opportunità di
benessere s’intrecciano con molti nuovi rischi che emergono da percorsi di
vita caratterizzati da mobilità, trasformazioni, velocizzazione dei ritmi, incalzare
di eventi critici, messa a rischio dei processi di appartenenza e inclusione.
In tali situazioni, oltre al permanere di molte delle patologie tipiche della modernità,
si sviluppano problematiche legate a nuove diseguaglianze sociali, a
specifiche condizioni di lavoro e di consumo, a stili di vita rischiosi, a sfide
all’identità e all’appartenenza. Ci si trova di fronte ad una multirischiosità che
produce una molteplicità di gruppi di rischio e di situazioni differenziate, fino
al limite del piccolo gruppo o dell’individuo. Questi, in relazione alla propria
biografia e alle specificità del proprio lavoro, ambiente sociale, rete familiare,
si trova esposto a particolari situazioni, spesso poco previste e scarsamente
regolamentate, dunque tendenzialmente poco protette. Esaminiamo in particolare
alcune tipologie e articolazioni dei rischi.
Condizioni di vita e globalizzazione
Nel campo del lavoro si sta creando una diversificazione rilevante fra lavoratori
flessibili e lavoratori stabili (ossia tra contingent workers e core workers),
anche se la stessa stabilità non va più pensata in termini garantisti, come
nel passato. Le forme di mobilità e flessibilità spinta comportano diversi problemi
sia nella gestione della quotidianità (stress, tempi sociali contrastanti
con quelli biologici, nomadismo, ecc.) sia nella gestione complessiva del per4
corso di vita (cambiamenti e riadattamenti, incertezza, frustrazioni, conflittualità,
mobbing, obsolescenza, emarginazione, insicurezza). Anche i lavoratori
più stabili sono soggetti a molte di queste pressioni ambientali.
A partire dagli anni ’90, il mercato del lavoro ha offerto una quota crescente
d’inserimenti lavorativi precari e incostanti. Una quota di individui e
gruppi familiari ha iniziato quindi a vivere in una sorta di spazio sociale oscillante
fra disagio e reddito, distinguendosi però dalla povertà di lungo periodo
e dall’esclusione sociale. Secondo uno studio di Schuster (2001), condotto in
Germania, nel giro di un anno oltre il 46% delle famiglie in condizione di povertà
ne esce e solo il 12% vi rimane stabilmente per cinque anni. Tuttavia
molti sono anche quelli che rientrano in tale fascia di svantaggio relativo (il
30% dopo un anno). Si manifestano quindi tre tipologie di povertà: quella
persistente (specialmente famiglie monogenitoriali, disabili, pensionati), quella
ricorrente, quella temporanea (in cui rientrano molti lavoratori precari a
basso reddito).
La situazione instabile sul piano lavorativo è però aggravata e complicata
da altri eventi legati al contesto familiare e parentale (malattie, rotture familiari,
assenza di sostegno familiare). In particolare, secondo studi inglesi (Dep.
Work and Pensions 2001) sono le donne sole con figli piccoli che rischiano
una condizione di povertà di più lunga durata. Ogni mutamento rilevante nella
struttura familiare può avere effetti non solo sul piano del reddito e del sostegno,
ma può agire da innesco di un percorso dentro carriere di povertà
(Braundbury et al. 2001).
Anche in Italia si rileva il fenomeno dell’entrata e uscita dalla povertà,
come emerge sia da studi comparativi europei di popolazione (ad esempio
l’European Community Household Panel che indica un’uscita dalla povertà
dopo un anno di un 40% degli individui inclusi nel 1994) sia da analisi dei
percorsi nei servizi assistenziali (Saraceno 2002). Nel complesso il fenomeno
della precarizzazione vede la convergenza di dinamiche che si producono in
aree e momenti diversi della vita, ma che si assommano e s’influenzano, rendendo
sempre più rischioso il percorso personale e familiare, sempre meno
compensato dalla protezione sociale (non calibrata su queste esigenze) e dalle
reti interpersonali (Siza 2004). Un’attenzione particolare va data alle donne
che, pur essendo sempre più inserite nel mondo del lavoro, sembrano risentirne
maggiormente di tale situazione in termini di malessere e salute (Chiaretti
2005, Ingrosso 2005).
Il campo dei consumi può offrire delle forme di compensazione ai rischi
lavorativi, ma più spesso agisce in termini di accentuazione delle tendenze
iperprestative e competitive, sviluppando fenomeni di compulsività, dipendenza,
iperattivismo, iperstimolazione. Il caso delle sostanze dopanti è emblematico
di questa quotidianizzazione della manipolazione fisica ed emozionale.
Come in un supermarket, si possono trovare sostanze per tutti gli usi(stimolanti, empatizzanti, disinibenti, rilassanti, ecc.) e per tutti i tempi.
Anche l’entertainment, il tempo libero, le vacanze, le palestre di fitness si pongono
spesso su questa scia che produce un tempo di consumo scarsamente
benefico e legato al tempo di lavoro da un doppio vincolo fatto di contrapposizione
nei modi e contenuti, ma al contempo di omogeneità culturale (Gruppo
Abele 2000, Ingrosso 2000).
La crisi delle forme di protezione sociale e gli orientamenti restrittivi prevalenti,
rendono sempre più difficile mantenere il godimento di garanzie legate
all’appartenenza categoriale o di settore, che possono essere non omogenee
e mutare nel tempo. La diversità nelle politiche pubbliche, comprese quelle
territoriali, creano inoltre delle nuove diversificazioni fra chi può usufruire di
possibili ammortizzatori o incentivi sociali nel passaggio da una posizione lavorativa
all’altra e chi ne è escluso. Il diritto alla salute vine reso più incerto
dalla sottrazione di risorse verso il settore pubblico e la sua mancata riforma,
mentre sempre più ampie sono le spinte ad una privatizzazione di pensioni e
assicurazione sanitaria. La dimensione sociale resta cronicamente sottovalutata
con evidenti effetti di mancata inclusione e crisi della coesione sociale. Si
ha quindi un welfare a macchia di leopardo, in taluni casi “colabrodo”, che
rende incerti molti diritti e poco affidabili le solidarietà.
A ciò si aggiunge la questione dell’insicurezza urbana e della sfiduciarietà,
aspetti che arrivano a caratterizzare alcuni territori, in particolare le periferie
delle aree metropolitane (Castel 2004). Spesso tali insicurezze trovano delle
aggregazioni intorno a figure irregolari, come gli stranieri, i nomadi, i “tossici”,
le figure di strada portando a forme di espulsione e intolleranza verso
alcuni gruppi sociali. Esse tuttavia si legano a diverse condizioni di vita, come
la cattiva qualità dello spazio urbano, la vulnerabilità sociale data da disoccupazione
e povertà, i meccanismi di rappresentazione sociale tanto nelle reti
vicinali quanto nei media, la caduta di fiducia nelle istituzioni e nel vicinato,
l’imprenditorialità politica verso posizioni di razziste, e così via (v. ivi Padovan,
Ingrosso 2002).
Sintetizzando questa parte, si può affermare che ci troviamo di fronte ad
una ridefinizione dei rischi legati alle condizioni di lavoro, ma che a queste si
aggiungono nuove differenziazioni legate agli stili di vita e di consumo, alle
forme di protezione sociale, alla struttura territoriale, urbana e abitativa; fenomeni
accentuati ed esasperati dalle rappresentazioni mediatiche, dagli utilizzi
in campo politico, dai nuovi imprenditori culturali dell’intolleranza.
L’individualizzazione dei rapporti sociali
Passiamo ora ad esaminare la seconda dimensione sociale, quella dei rapporti
e delle relazioni sociali che, come abbiamo detto, è segnata da quel fenomeno
che diversi autori hanno designato come individualizzazione (Bauman
1999, Beck 2000, Melucci 2000). Questo fenomeno è strettamente legato
con quello che ho definito “inclusione a rischio” (Ingrosso 2003). Vengono
infatti poste in dubbio e in sospensione le appartenenze familiari, associative,
comunitarie, territoriali, culturali, politiche in conseguenza di fenomeni tanto
strutturali quanto culturali che accentuano la mobilità, la disidentificazione, la
competitività, il protagonismo, la comunicazione unidirezionale, i legami leggeri,
e così via. Più che un’assenza d’inclusione, si ha una continua negoziazione
a vari livelli, un impoverimento di alcune dimensioni (quali il riconoscimento,
la vicinanza, l’intelleggibilità delle situazioni sociali), la continua
ridefinizione e incertezza delle regole sociali.
Questa situazione ha pesanti ricadute in termini di benessere sociale. Possiamo
infatti definire il benessere sociale come quella forma di benessere di
cui gli individui beneficiano in virtù di adeguate relazioni di reciprocità e inclusione
entro gruppi e reti sociali. Una dimensione che ha virtù benefiche
anche in termini collettivi, in ragione della fiduciarietà (almeno relativa) che
sviluppa, del senso di sicurezza condiviso, dell’affidabilità dell’aiuto e della
solidarietà. Oggi il benessere sociale è minacciato sia in termini sostanziali sia
in termini ideologici, culturali, politici. In questo senso siamo “senza benessere
sociale” (Ibidem), in quanto tale forma di beneficialità è diventa invisibile,
non perseguita, sostituita da una corsa al godimento individuale lussuoso.
I rischi di un’inclusione inadeguata e instabile possono andare dall’isolamento
ed esclusione a vari disturbi dell’identità e della regolazione psicocorporea.
Questi disturbi sembrano essere in notevole crescita in particolare nelle
nuove generazioni, ma anche nei tardo-adulti. In un volume recente due psicoterapeuti
francesi argomentano che la loro esperienza professionale li fa toccare
con mano la diffusione di “passioni tristi” (Benasayag e Schmit 2004), secondo
la definizione di Spinoza, ossia di sensazioni d’impotenza, disgregazione,
insicurezza. “Cosa succede – essi si chiedono – quando la crisi non è
più l’eccezione alla regola, ma è essa stessa la regola della nostra società?”
(Ib., p. 13). Spesso ci si deve accontentare non di accompagnare le persone
“in porto”, ma piuttosto di “stabilizzarle nella crisi” (Ib., p. 14). Il futuro non è
più percepito come promessa o desiderio, ma come emergenza e minaccia generate dalla diffusione dell’utilitarismo in tutte le aree della vita sociale.
L’individualizzazione scava quindi dei solchi che non vengono ricomposti,
mette in crisi l’affidabilità, la stabilizzazione, la capacità di identificazione
collettiva e il senso di appartenenza generalmente offerte da relazioni sociali con qualche grado di coesione e beneficialità. Da qui la percezione di rischiosità
e precarietà della propria inclusione sociale e la minacciosità di altre viste
come concorrenziali. Il benessere emergente dalle relazioni sociali, fondamentale
per l’equilibrio personale e l’azione sociale nelle reti relazionali, viene
così messo in crisi scatenando sentimenti rabbiosi, involuti, “tristi”.
La differenziazione culturale
Una terza area di rischiosità tipica dell’attuale fase storico-sociale è quella
derivante da forme di differenziazione culturale. Le modalità con cui questi
fenomeni, di per sé non negativi, sono vissuti portano a diversi problemi in
termini di conflitti d’identità e di comunicazione. In particolare si produce una
tensione fra etnocentrici (tendenzialmente xenofobi) e nomadi culturali (potenzialmente
xenofili) (Guolo 2003), amplificata anche dai processi che si
esplicano sul piano delle condizioni di vita e dell’inclusione che abbiamo già
visto. Come ho cercato di mostrare (Ingrosso 2002, 2003), il conflitto è tanto
interno ai “nativi”, quanto esterno verso i nuovi arrivati, in particolare alcuni
gruppi etnici e culturali. La delusione s’incrementa poi nelle seconde e terze
generazioni, in relazione alla mancata legittimazione del “Noi” allargato, ossia
dell’inclusione multiculturale.
Processi sociali schismogenetici (ossia di conflittualità crescente: v. Bateson
1976) si innescano in seguito all’attivazione di mcccanismi socio-culturali
come quelli del capro espiatorio, dell’invidia mimetica (col conseguente risentimento:
v. Girard 1999), del doppio vincolo che producono forti lacerazioni,
contrapponendo la cultura del pluralismo alla cultura dell’identità (intesa
come narrazione “mitica” del gruppo linguistico-culturale stanziale).
La questione della differenziazione culturale, coi suoi forti riscontri etici,
valoriali, identitari, porta ad ulteriori diversificazioni nei rischi e nel godimento
del benessere, in particolare fra vecchi residenti e immigrati. Tale problematica
taglia trasversalmente le altre viste finora accentuando le percezioni di
insicurezza e minaccia alla coesione sociale. Solo politiche locali di taglio trasculturale
possono cercare di far fronte a questa sfida articolando la comunicazione
e i rapporti fra gruppi tenendo conto del diverso bagaglio culturale
tanto dei residenti quanto degli immigrati (Tognetti Bordogna 2004).
2. Accezioni tradizionali di benessere sociale
Com’è noto, la definizione della salute data dall’OMS nel 1948 traduce
questo concetto in quello di benessere, un “completo benessere” sul piano fisico, psichico e sociale che si traduce in un diritto da costruire collettivamente.
Da parte di molti interpreti, che ragionano in termini di paradigma biomedico,
la connotazione sociale è stata espunta in quanto la salute-benessere è
vista come uno stato psico-fisico dell’individuo piuttosto che un processo dinamico
emergente dalle relazioni che i soggetti intrattengono col proprio ambiente
di vita. Anche la visione medico-sociale interpreta generalmente il benessere
sociale in termini di sommatoria di più stati individuali, di quadro
epidemiologico di una popolazione da tutelare tramite una normativa e servizi
igienico-ambientali. La dimensione sociale rimane quindi confinata ai servizi
sanitari curativi e preventivi costituiti per via politica.
In altri casi, del benessere si è data un’interpretazione socio-economica in
termini di disponibilità di beni pubblici, per un verso, e di beni privati,
dall’altro, goduti in quanto membri di una collettività. Per quanto riguarda i
beni pubblici o comuni si sono utilizzati i concetti collegati di diritto, accesso,
entitlement (titolarità) per significare la disponibilità tendenzialmente universalistica
di una quota parte della provvista comune. L’effetto voluto di tale distribuzione
regolata di risorse non è però solo legato al valore d’uso individuale
del bene, ma anche affermazione di cittadinanza: infatti attraverso il godimento
dei beni si afferma l’appartenenza alla comunità nazionale, l’inclusione
fra gli aventi diritto, che segna quel livello di dignità storicamente ritenuto
basilare e indispensabile. E’ in questa versione che il benessere sociale
viene assunto dai sistemi di welfare. Si tratta di fornire adeguate prestazioni
agli individui - visti come membri di ceti, classi sociali, categorie lavorative -
tali da compensare o prevenire i rischi tipici della loro condizione lavorativa e
sociale (infortuni, disoccupazione, anzianità, infermità, povertà, ecc.).
Il termine benessere conosce però, come detto, anche un’accezione privatista
ed economico-individuale. In tal caso esso s’identifica coi beni godibili
per la soddisfazione dei bisogni personali e familiari o, più modernamente, coi
consumi attivati sul mercato per corrispondere ai desideri e alle scelte individuali,
come sostiene la retorica neoliberista. In tal caso il benessere di una popolazione
è dato dal complesso delle risorse disponibili in un’economia, divise
per la quantità di individui che ne fanno parte. Emergono naturalmente dei
forti problemi di diseguaglianza che portano fasce di popolazione ad essere
sotto il livello di povertà assoluta o piuttosto, in altri casi, di povertà relativa
rispetto ad un determinato livello giudicato “adeguato” nel contesto della disponibilità
e distribuzione complessiva.
A partire dalla metà degli anni ’70 si è affermata la rivoluzione neoliberista,
prima in alcuni paesi, successivamente come paradigma internazionale
della globalizzazione. Gli effetti sono quelli di una divaricazione fra benessere
come consumo individuale e benessere come provvista collettiva, a tutto vantaggio
del primo termine, con l’effetto di mantenere grosse e crescenti diseguaglianze sociali
L’orientamento neo-liberista “compassionevole” si propone
di compensare tale deficit fino a portarlo al livello di sussistenza, solo però
per le persone riconosciute meritevoli e “interne”.
Questa concezione economicistica e individualista del benessere occulta o
sottovaluta l’esigenza e l’utilità di un benessere sociale, anzi si pone in antitesi
con esso. Le attuali tendenze alla flessibilità e mobilità in campo lavorativo,
al consumismo distintivo, all’individualizzazione sociale costituiscono dei
forti incentivi alla diffusione di questo orientamento che non solo non persegue
il benessere sociale, ma, in molti casi, nemmeno lo avverte come problema,
come orizzonte, come desiderabilità. Di qui la caduta di questi principi e
obiettivi in molte politiche sociali assunte non solo da governi di orientamento
neoliberista, ma anche di “terza via” o lib-lab, come si usa dire.
Per contro anche l’accezione pubblicistica del benessere sociale assunta
dalle classiche impostazioni di welfare resta legata ad una concezione statica
e distributiva del benessere. Statica in quanto basata sulla soddisfazione di un
pacchetto di bisogni individuali indipendenti dal contesto, distributiva in
quanto concepisce la soddisfazione dei bisogni come dipendente dall’accesso
di una quota sostitutiva o integrativa di beni e servizi non acquisibili sul mercato
privato1. A differenza della concezione privatista, quella pubblicista si
basa, da un lato, sull’esistenza di “solidarietà” istituzionalmente definite che
fanno da substrato alla creazione di apparati e interventi collettivi, mentre,
dall’altro, ritiene che questa solidarietà venga rafforzata dall’esercizio dei diritti
di accesso in termini universalistici. La solidarietà tuttavia non è un elemento
costitutivo del benessere sociale, ma solo un presupposto basato sul
condividere condizioni di vita, valori e interessi simili.
Nell’era planetaria questo presupposto solidaristico non può più essere dato
per scontato in ragione di una frammentazione delle condizioni di lavoro,
della maggiore individualizzazione dei rapporti sociali e di una piùà accentuata articolazione del pluralismo etico e culturale, come si è visto. E’ per questa
ragione che oggi al centro della concezione e delle politiche per il benessere
sociale vanno poste le questioni della fiduciarietà nella vita quotidiana, della
costruzione attiva dell’inclusione, dell’appartenenza2 e delle solidarietà3, della
qualità sociale in ogni specifico territorio, della qualità della vita collettiva,
intesa come definizione partecipata e condivisa delle priorità da perseguire a
livello di comunità locali. Oggi ci accorgiamo che una concezione prettamente
egualitaria e distributiva del benessere è fortemente inadeguata a fare i conti
col senso di malessere, di insicurezza, di minaccia che emerge dalla vita sociale,
in cui anche l’effettivo godimento di un bene viene percepito come precario,
minacciato dal vicino e dal nuovo arrivato. In tali condizioni, l’eventuale
sottrazione o non disponibilità di beni si focalizza facilmente su capri espiatori
avviando perversi meccanismi di sfiducia che si autoalimentano.
3. Capitale sociale e benmalessere
Secondo Putnam (2004), il termine capitale sociale “è stato concepito in
modo autonomo almeno sei volte nel corso del XX secolo e sempre per focalizzare
l’attenzione sul modo in cui la nostra vita è resa più produttiva dai legami
sociali” (Ib., p. 14). In tempi recenti J. S. Coleman (1998) lo ha rilanciato
per analizzare la diffusione e i risultati dei programmi d’istruzione, trovando
una relazione molto stretta fra questi due complessi di fenomeni.
Per capitale sociale l’autore intende l’esistenza e il funzionamento di reti
sociali, la presenza e il funzionamento di norme sociali di reciprocità e di fiducia
sociale, la diffusione di pratiche partecipative e comunitarie. Tale insieme
produce una forma di valore o ricchezza che si aggiunge al capitale
economico e al capitale umano, inteso soprattutto come capacità individuali
spendibili sul mercato del lavoro.
Le ragioni di uso del concetto sono trovate nella sua diffusione e successo,
nella sua riassuntività rispetto a molti fenomeni disparati, nel suo valore metaforico.
Ciò non toglie che, a mio parere, vi siano diversi dubbi, dal punto di
vista teorico, su tale concetto. In primo luogo perché si situa dentro una teoria
del “capitale” (intesa, a seconda degli autori, in senso capitalista, riformista o
marxista) che descrive solo una parte delle dinamiche sociali di dono e reciprocità e le osserva da uno specifico angolo visuale: quello della “quantità” di
valore rilasciato. Esse vengono descritte sotto la metafora del valore d’uso ma
soprattutto del loro valore di scambio, evidenziando la fluidificazione delle
attività produttive e socio-politiche che la loro presenza comporta. Sul piano
metaforico si sottintende il valore etico e la sottovalutazione da parte delle
tradizionali teorie economiciste, ma si corre il rischio di una sorta di “cosificazione”
del concetto giocando sul suo doppio significato: quello pseudoconcreto
di bene e quello etico-simbolico di valore morale.
Putnam, tuttavia, precisa la dimensione relazionale del concetto: evidenziarne
le mille facce dei benefici arrecati non deve nascondere la loro origine
che si situa nella reciprocità specifica (“farò questo a te se tu farai quello per
me) e soprattutto nella reciprocità generalizzata (“farò questo per te senza attendermi
in cambio nulla di preciso, nella fiduciosa prospettiva che qualcun
altro, strada facendo, farà qualcosa per me”: Putnam 2004, p. 18)4. Il capitale
sociale è quindi una sorta di bene relazionale che è assunto soprattutto come
indicatore di una realtà “sui generis” che viene sintetizzata attraverso i suoi
effetti più visibili e benefici. Una realtà d’altronde che ha anche risvolti ambigui
o negativi, allorchè diventa intollerante o escludente (come può succedere
anche per il termine “cugino” comunità)5.
La composita ricerca sociologica di Putnam è interessante sul piano empirico
perché, attraverso l’analisi secondaria di una considerevole massa di studi
e di dati (sulla partecipazione politica, civica e religiosa, le relazioni sul lavoro,
quelle informali, altruistiche e fiduciarie e gli eventuali aspetti controcorrente)
evidenzia la marcata individualizzazione, l’allentamento di legami sociali,
la caduta di impegno civico negli Stati Uniti conseguente a diversi fenomeni
occorsi a partire dagli anni ’60 e ’70. Egli evidenzia altresì, col taglio
pragmatico ed empirico che lo caratterizza, i diversi benefici dimostrabili,
connessi con l’esistenza di relazioni di reciprocità, nei campi della sicurezza,
dello sviluppo economico, della soddisfazione lavorativa, della partecipazione
democratica e, non ultimo, della “salute e felicità”. Egli anzi sostiene che in
nessun ambito “l’importanza dell’interazione sociale è consolidata come nel
caso della salute e del benessere” (Ib., p. 397). Lo dimostrano diversi indicatori
comparativi di salute collettiva che evidenziano come questa sia migliore
in aree e stati che si attestano su valori migliori di capitale sociale. Per contro
“negli stessi anni in cui la connessione sociale diminuiva, la depressione e il
suicidio aumentavano” (Ib., p. 404). L’effetto è che mentre gli americani non
sono mai stati meglio sul piano economico si sentono peggio sul piano del benessere
e della felicità.
In conclusione il lavoro di Putnam, pur nella non piena sovrapposizione
teorica dei concetti di capitale sociale e benessere sociale, evidenzia la rilevanza
sia individuale sia collettiva del rapporto fra relazioni e fiducia sociale,
da una parte, e ricadute collettive, dall’altra, fra cui quella della salutebenessere
sociale è la più esplicita e dimostrabile. Il forte impegno analitico,
empirico e pragmatico della ricerca di Putnam costituisce quindi una significativa
controprova delle osservazioni compiute da diversi sociologi in questi
anni, prevalentemente sul piano teorico e riflessivo, evidenziando gli aspetti
politici e operativi che i concetti di capitale sociale e benessere sociale possono
avere per orientare le politiche e l’azione sociale negli anni a venire.
4. Verso una nuova teoria e pratica del benessere sociale
La critica alle concezioni neoprivatiste e neopubbliciste del benessere
comporta la necessità di un ripensamento di fondo delle categorie e degli
orientamenti attualmente assunti, e la proposta di nuovi modi di pensare il benessere
sociale adeguati alle problematiche emergenti nella fase attuale.
Come quindi può essere ripensato il benessere sociale? Si è notato nel
campo dell’epidemiologia e della medicina sociale che dal godimento esteso
di benefici in una popolazione si ha un surplus di benessere che non potrebbe
essere raggiunto dalla disponibilità puramente individuale di beni e servizi. Il
concetto è simile quello di “immunità di gregge” che si raggiunge allorché si
supera una certa quota (ad es. 92/94%) di popolazione vaccinata. In tal caso si
arriva ad un’assenza e talvolta eradicazione di una malattia infettiva (come è
stato per il vaiolo) con evidenti benefici di minor rischio tanto individuale
quanto collettivo. In altri termini il benessere che gli altri godono (benessere
per tutti) diminuisce la rischiosità per ciascuno. Secondo un’altra accezione, a
opportuni interventi socio-ambientali6 conseguono benefici sanitari diffusi,
soprattutto in termini di abbassamento della morbidità, che talvolta sono maggiori
di quelli ottenuti per via prettamente medico-sanitara individuale.
A ben vedere, tuttavia, in questi casi si resta nel campo delle ricadute indirette
e spesso impreviste che sono riscontrabili, potremmo dire misurabili, sulla
base degli effetti sulla salute fisica (o al più psico-fisica) individuale. Manca
tanto una visione relazionale della salute-benessere quando una visione societaria
per cui alcune caratteristiche o qualità della vita sociale possano essere
ritenute benefiche per lo sviluppo di collettività o comunità inserite in più
ampi dinamismi sociali.
E’ soprattutto a partire dagli anni ’80 che cominciano ad essere proposte
delle revisioni-integrazioni del concetto di salute-benessere. Ad esempio
Ewles e Simnett (1989) propongono di integrare il concetto dell’OMS con la
considerazione degli aspetti emozionali, spirituali e societari. Essi sostengono
che si deve allargare l’articolazione della visione olistica assunta dall’OMS in
considerazione di una valutazione più approfondita delle dimensioni relazionali,
simboliche e sociali costitutive del benessere.
Anche la proposta della Promozione della salute, intesa come nuova politica
globale a favore del benessere [Ottawa Charter of Health Promotion,
1986], che emerge nella prima metà degli anni ’80 nell’ambito di alcune Regioni
dell’OMS, si basa su una concezione dinamica e processuale (“in divenire”)
delle potenzialità personali, e rilancia una visione sociale legata alla
doppia ecologia entro cui si situa la vita personale: quella dell’ambiente naturale
e quella degli ambienti sociali di vita, di cui la città è luogo, anche simbolico,
di co-abitazione e coordinamento.
Da parte sua la psicologia sociale ha cominciato a studiare la componente
sociale della salute intesa “come influenza del contesto sociale e dei fattori
sociali sulla salute e sul benessere” degli individui (Zani e Cicognani 1999, p.
46). Keyes (1998), ha definito il benessere sociale come “la valutazione delle
proprie condizioni di vita e del proprio funzionamento nella società”. Tale valutazione
è articolata in cinque dimensioni: quella dell’integrazione sociale
(comunanza vs isolamento), quella dell’accettazione sociale (fiducia vs diffidenza), quella del contributo sociale (valore riconosciuto vs svalutazione o
mancato riconoscimento), quella dello sviluppo (o attualizzazione) sociale (fiducia
nella realizzazione delle potenzialità di crescita complessiva vs regressione
o dispersione delle potenzialità), quella della coerenza sociale (qualità e
comprensibilità dell’organizzazione sociale vs disordine e inintelleggibilità).
L’aspetto percettivo del benessere diventa costitutivo per Keyes e si articola in
un insieme di aspetti psico-sociali che interessano la dimensione cognitiva,
quella affettivo-relazionale, quella simbolica e quella partecipativa; esse convergono
nella valorizzazione attiva del contributo personale alla vita sociale.
Altri studi hanno evidenziato che anche il “senso di essere parte” (Prezza
e Costantini 1998) e il “senso di comunità” (Chavis e Pretty 1999), ma altresì
la percezione di solidarietà e sostegno operante (McDowell e Newell 1987)
hanno effetti percepibili sul benessere sociale personale. Ciò indica che sono
diversi i livelli da cui trae alimento il benessere sociale, che esso evolve storicamente,
che abbisogna di una combinazione adeguata e sufficiente, anche se
non necessariamente ottimale, di percezioni, riconoscimenti, godimenti per
essere alimentato nelle varie fasi ed età della vita.
Questi studi, che considerano il benessere degli individui in quanto esseri
sociali, forniscono sostanziali indicazioni utili per la sociologia del benessere
in quanto queste dimensioni possono essere estese dal soggetto ai microambienti
di vita quotidiana, per un verso, agli ambienti associativi “intermedi”,
per un altro. Ciò non è però ancora sufficiente, in quanto il benessere,
nell’attuale contesto, ha altresì una dimensione societaria e simbolica in termini
di cittadinanza. Più che di una precisa e predefinita topografia, si tratta
quindi di valutare il benessere sociale come la risultante di un complesso di
relazioni capaci di qualità sociale in termini di inclusione, senso di appartenenza,
solidarietà operante. In altri termini, il benessere sociale deve essere
concepito come quel circuito che crea benessere per una popolazione se e in
quanto capace di un’efficace e continua transazione fra appartenenzadifferenziazione
personale e connessione-innovazione collettiva. Il benessere
cioè costituisce un punto di scambio e intersecazione fra il bisogno dei soggetti
di appartenere a gruppi significativi (facendo coesistere un insieme definito
di appartenenze e promuovendo una propria identità differenziale), da
una parte, e il bisogno societario di sostenere la coesione sociale in un quadro
d’innovazione e di sviluppo, dall’altra.
Mentre è abbastanza chiaro che alcune tendenze sociali (come i nuovi rischi
sopra richiamati) tendono a generare malessere, non si è ancora focalizzata
a sufficienza l’attenzione sui fondamenti necessari e sufficienti del benessere sociale7.
E’ evidente la sua natura contestuale e storicamente definita, in
cui gli aspetti fiduciari, partecipativi, solidaristici giocano un ruolo preciso e
ineliminabile. Per molti aspetti si può anzi affermare che il bisogno di benessere
sociale e societario precede e fonda la stessa appartenza, in quanto ne
motiva la ricerca e l’evoluzione verso forme più consone e adeguate. In tal
senso il benessere sociale non è solo un effetto o un prodotto delle relazioni
solidaristiche o del capitale sociale, ma piuttosto una sua ragione fondativa e
una spinta alla sua realizzazione; infatti tale dimensione bio-sociale e antropologica
dell’esistenza può essere soddisfatta solo attraverso un adeguato embodiment,
ossia una composizione di appartenze sociali storicamente e culturalmente
adeguate. Un ambiente, un gruppo, un’associazione, un processo generano
benessere (sono salutogenetici) allorchè il clima culturale e
l’operatività che si generano nel loro farsi portano i componenti a sviluppare
una reciprocità specifica e generalizzata che si automantiene e si rivela
(preautomantiene e si rivela (prevalentemente) benefica (nonostante le crisi e i
conflitti) non solo all’interno, per gli stessi appartenenti, ma anche negli
scambi verso l’esterno, per i circuiti di reciprocità altruistica o ecologica che innesca
5. Nuove tipologie di politiche
Se concepiamo il benessere sociale non solo come determinato dalla disponibilità
di un’adeguata provvista di beni e servizi, ma piuttosto come
l’effettiva produzione di qualità sociale all’interno di un gruppo umano, e
quindi come godimento di adeguate relazioni di reciprocità e inclusione entro
gruppi e reti sociali da parte di tutti i soggetti che ne fanno parte, allora il
compito delle politiche è quello di favorire in modo attivo, e non solo in termini
compensativi, il perseguimento di tali obiettivi relazionali e societari che
assumono il valore di beni pubblici e comuni. Nella parte che segue esamineremo
alcune indicazioni su come possa essere perseguito tale compito
nell’attuale fase societaria.
Combinare flessibilità e integrazione nel mondo del lavoro
Per quanto riguarda le condizioni di partecipazione al mercato del lavoro,
pare necessario pensare non solo ad “ammortizzatori sociali” per compensare
i periodi di disoccupazione, ma ad una nuova stagione di diritti. L’insicurezza
generata della precarietà e flessibilità va contrastata attribuendo al lavoratore
una serie di garanzie di base indipendenti dalla sua condizione di lavoro e di
vita, e sviluppando delle politiche mobili di supporto capaci di affiancare il
soggetto che si trovi a fronteggiare varie evenienze non solo lavorative, ma
anche di percorso di vita.
E’ necessario coniugare una quota significativa di flessibilità occupazionale
con una continuità di garanzie e supporti all’inclusione, arrivando a diminuire
l’ansia del passaggio occupazionale e la necessità di accettare qualunque
condizione d’impiego (ad esempio, attraverso forme di reddito di transizione),
sviluppando la trasparenza nel reimpiego e la reperibilità di nuova
occupazione, decongestionando tempi e modi di lavoro, estendendo le tutele
per la sicurezza nell’ambiente di lavoro, fornendo opportunità formative capaci
di reindirizzare i percorsi individuali.
Per quanto riguarda la riduzione delle diseguaglianze sociali e gli interventi
in situazione di disoccupazione o povertà temporanea, sono state proposte
forme di sostegno plurimo da mettere in gioco in specifiche situazioni di
crisi aziendale capaci di contenere lo stress, sviluppare le capacità di riposizionamento
sul mercato del lavoro e sostenere le reti sociali dei lavoratori licenziati
(Dooley et.al. 1996). Secondo Siza (2004, che cita Elwood 1988), è
necessario sviluppare un welfare to work “che non si limita ad erogare prestazioni
economiche, ma è volto ad accrescere le capacità del singolo di inserirsi
nel mercato del lavoro e nella vita sociale” (Ib., p. 18). Sarebbero utili analisi
dinamiche che evidenzino quali eventi critici creano dinamiche di impoverimento
e come sia possibile intervenire tempestivamente per contrastarle.
Politiche di integrazione dinamica nelle comunità locali
Vediamo ora una tipologia d’interventi possibili a livello territoriale che
possono favorire, in modo diretto o indiretto, l’integrazione e il benessere sociale.
Utilizzeremo il termine politiche di comunità per riferirci a interventi
volti a rafforzare il “senso di comunità”, di appartenenza, di fiduciarietà. Utilizzeremo
invece il concetto di comunità sociale o welfare community per indicare
il coordinamento e l’attuazione degli interventi di qualità della vita su
un determinato territorio attuato attraverso reti interorganizzative comprendenti
gli stessi cittadini destinatari degli interventi.
Volendo analizzare le politiche di comunità attraverso i fini e i benefici attesi,
possiamo distinguere:
a) una prima tipologia, denominabile di appartenenza o culturale, che è
volta a mantenere la memoria della comunità, esaltarne i valori caratterizzanti,
preservare i riferimenti linguistici, attribuire significato all’appartenenza;
b) una seconda è definibile di sostegno e solidaristica: si propone di incrementare
l’aiuto fornito dalle reti informali o volontarie e il senso di
solidarietà diffuso;
c) una terza tipologia è quella che punta sulla prevenzione di situazioni
di malessere e disagio, in particolare in certi ambienti sociali o parti di
territorio; una variante è la cosiddetta prevenzione reattiva che ha lo scopo
di migliorare la capacità di resistenza di fasce di popolazione di fronte
a rischi che le minacciano, solitamente attraverso la creazione di reti di
aiuto informali sostenute dai servizi pubblici;
d) un quarto tipo o obiettivo è quello che si rivolge agli individui o ai
gruppi ed è volto a migliorare il benessere soggettivo, le capacità personali,
l’autostima, la possibilità di soluzione a problemi comuni;
e) le politiche partecipative puntano sullo sviluppo del coinvolgimento
dei cittadini nei confronti di scelte determinanti del proprio territorio
(cittadinanza attiva) o alla costruzione delle condizioni del benessere sociale;
f) le politiche fiduciarie e di mediazione culturale si propongono di mediare
fra aree e gruppi sociali, etnici, religiosi, superando diffidenze e
pregiudizi e promuovendo una migliore comprensione e coesione;
g) le politiche relative alla sostenibilità e vivibilità sono volte alla qualità
ambientale del territorio. Possono riguardare tutti i cittadini, ma essere
calibrate in particolare per i bambini, gli anziani, i disabili;
h) le politiche relative alla sicurezza, intendono far fronte all’allarme dato
dall’aumento della microcriminalità avviando una partecipazione civica
che migliora il controllo del territorio e disinnesca pericolose spirali di
risentimento;
i) le politiche di ascolto e comunicazione sociale sono volte a mettere in
comunicazione istituzioni e cittadini favorendo la sensazione di ascolto e
risposta, e quindi migliorando la fiducia diffusa; esse possono altresì dare
voce e visibilità a gruppi marginali favorendo la loro percezione di
appartenenza.
L’elemento comune di queste politiche è l’attenzione ai rapporti fra gruppi,
l’attivazione degli elementi costitutivi del senso di comunità, la promozione
della fiducia, il disinnesco di spirali conflittuali ed emarginanti, la creazione
di una comunicazione utile e reale fra singoli, gruppi, istituzioni. Si tratta
di politiche “leggere”, ma non improvvisate, che presuppongono dei terminali
intelligenti, un ascolto costante, strumenti coerenti, tempismo negli interventi.
6. La costruzione della welfare community: valutazioni su un percorso.
Nel corso degli anni novanta si è proceduto in Italia, non senza incertezze
e lentezze, alla costruzione delle basi di un riorientamento in senso federalista
e comunitario dello Stato sociale8, a partire dalla 142/91, che ha ripensato i
Comuni come rappresentanti delle comunità locali, passando per le leggi regolative
dei soggetti di terzo settore (266/91, 381/91, 460/97). Verso la fine
degli anni ‘90 sono stati messe in cantiere dei sistemi a rete centrati sulla gestione
locale e territoriale delle politiche sociali o di loro sottoaree. In particolare
ci riferiamo alla legge 285/97, riguardante gli interventi a favore
dell’infanzia, alla 328/2000, riguardante il sistema integrato dei servizi e interventi
sociali, al Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 che ha proposto un
Patto di Solidarietà per la Salute che, per la prima volta, ha assunto la prospettiva
della “Promozione della Salute” come nuova politica pubblica nel nostro
paese. Queste linee legislative si sono intrecciate con iniziative locali, ad
esempio quelle delle Città dei bambini, delle Città Sane, di Agenda 21 e altre,
volte ad esaltare la qualità della vita nell’ambiente urbano e non solo. Sulla
base di questi indirizzi l’assetto organizzativo degli attori delle politiche sociali
locali in Italia è profondamente mutato nella direzione di un welfare mix
articolato su base locale e regionale (Ascoli e Pasquinelli 1993, Fazzi 1998,
Chieffi 1999, Ascoli e Ranci 2003).
Tuttavia la modifica del titolo V della Costituzione del 2001, come hanno
sostenuto alcuni autori (Balduzzi e Di Gaspare 2002, Ferioli 2002), ha frammentato
questo quadro, dandone applicazioni ampiamente variegate. Secondo
alcuni si va verso modelli regionali distinti, con diversi pesi e ruoli degli attori
di welfare operanti in sede locale; secondo altri si è avuto un effetto di disarticolazione
in cui hanno prevalso altre spinte e obiettivi.
Le iniziative assunte dal II° Governo Berlusconi non sembrano aver avuto
un orientamento coerente, oscillando fra misure di neocentralismo statalista -
in particolare quelle contenute nella finanziaria 2003 e in quella 2004 - e
orientamenti di centralismo regionalista, come il disegno di legge Bossi sulla
devolution (approvato nel momento in cui scriviamo da ambedue i rami del
Parlamento, ma soggetto a referendum confermativo) che prevede la competenza
“esclusiva” delle Regioni in materia di polizia locale, assistenza e organizzazione
sanitaria, organizzazione scolastica (meno chiara la sorte del comparto
sociale). In tal modo non solo si riaprirebbe un conflitto di competenze
infinito fra Stato e Regioni, che, fra l’altro, non ha ancora trovato un assetto
istituzionale adeguato (tipo Camera delle Autonomie), ma soprattutto verrebbe
vanificato il principio di sussidiarietà verticale e orizzontale che era sembrato
finora l’elemento unificante e comune fra indirizzi europei, legislazione
nazionale (a partire dal nuovo art. 118 della Costituzione italiana), regolamentazione
regionale, amministrazione locale. Pochi inoltre hanno notato che i
termini “assistenza e organizzazione sanitaria”, contenuto nelle leggi di devoluzione,
sono riduttivi sia rispetto agli indirizzi e alla terminologia adottata
dalla 328, che parla di “interventi e servizi sociali”, sia rispetto agli orientamenti
preventivo-promozionali affermatisi in campo sanitario, a partire dal
PSN 1998-2000 (Ingrosso 1999), ma in parte anche ribaditi dal Ministro Sirchia
con la costituzione del Ministero della Salute.
In ogni caso, le recenti trasformazioni in direzione del federalismo (o neocentralismo?)
regionalista possono mettere in dubbio il ruolo dei Comuni e
delle comunità locali, che nell’ultimo decennio si era andato precisando. Esse
hanno già comportato un’azione di freno del lavoro di affinamento progettuale
e di sperimentazione necessario all’attuazione di una riforma così ampia e
impegnativa come quella avviata dalla 328/2000. Un ulteriore effetto negativo
consiste nella persistente focalizzazione dell’attenzione sulla dimensione politico-
istituzionale, mettendo in secondo piano la riflessione sostanziale
sull’adeguatezza del costituendo sistema rispetto al contesto sociale in rapido
mutamento.
Venendo ad una valutazione di adeguatezza per la citata L. 328/2000 rispetto
alle esigenze di inclusione e benessere sociale emergenti in questa fase,
si può rilevare che la legge è potenzialmente in grado di intercettare una serie
di bisogni di appartenenza, di sostegno, di inclusione, di solidarietà e partecipazione
civile. Essa infatti mostra un riferimento significativo alle comunità
locali, ai soggetti attivi di terzo settore, alla solidarietà su base associativa e di
auto-aiuto9 e, fra gli obiettivi prioritari, si propone di redigere Piani nazionali
per l’inclusione sociale, promuovere i diritti delle persone anziane, favorire
l’inserimento sociale e lavorativo dei disabili, occuparsi dell’inclusione degli
immigrati, e così via. L’orientamento promozionale e il ruolo degli interventi
innovativi sono presenti nell’impianto della legge, anche se, come si è visto,
questi aspetti rischiano di essere pesantemente penalizzati dall’evoluzione in
corso in senso iperregionalista e dalle difficoltà dei Comuni di interpretare il
proprio ruolo composito.
Nonostante questo impianto, in buona parte innovativo nel panorama italiano,
emergono delle perplessità sulle capacità della legge di farsi carico del
deficit di integrazione e benessere sociale. Una parte di queste perplessità nascono
da considerazioni esterne alla legge, relative profondo mutare di senso
comune e orientamenti politici in corso che portano a non vedere e non farsi
carico delle esigenze di benessere collettivo e di quelle delle fasce marginali.
A parte questo dato di sfondo, rimane l’impressione che l’impianto della legge
sia eccessivamente istituzionalista (secondo il modello del welfare) e ancora
scarsamente consapevole e attrezzato per affrontare le esigenze di wellness
e well-being. Se confrontiamo infatti le esigenze emergenti dalla nostra tipologia
di “politiche di comunità”, si può notare che esistono alcune sovrapposizioni
con quelle previste dal Piano Nazionale (ad esempio: “promozione di
stili di vita, di interventi di rete, partecipazione di adolescenti alle attività delle
comunità locali”), ma che esse sembrano giocare solo un ruolo minore e di
rincalzo rispetto all’esigenza di assicurare comunque le prestazioni essenziali
minacciate dalla stretta finanziaria in atto.
Risulta altresì significativa la sottovalutazione della dimensione comunicativa
(che il Piano vede come “promozione di interventi di informazione”)
che priva la legge di un importante quadro di riferimento interno e di uno
strumento di incidenza sociale.
Gli studi fatti finora sugli effetti della legge hanno rimarcato la sua mancata
generalizzazione, le difficoltà applicative e le resistenze che essa incontra
(David 2005). Poco si è detto comunque dei benefici che essa ha portato, dove
è stata applicata, in termini di trasformazione dell’organizzazione istituzionale
e di promozione d’iniziative progettuali. In ogni caso il tempo di applicazione
è ancora troppo breve per trarre delle indicazioni definite, anche se non si può
non rimarcare che essa è stata non sostenuta o addirittura minacciata da iniziative
estemporanee del Governo e dai possibili tagli costantemente paventati o
realizzati. Nel complesso la legge costituisce indubbiamente un importante
punto di partenza e un risultato innovativo nel quadro delle politiche sociali
italiane. Essa tuttavia rischia di restare pesantemente incompiuta e contrastata
da altri orientamenti emergenti sia in sede socio-culturale sia politicoistituzionale.
Inoltre essa presenta una serie di incognite inerenti al suo impianto
e al tessuto istituzionale che ne dovrebbe assicurare l’organizzazione e
l’esercizio, incognite che dovrebbero essere affrontate e corrette nel prossimo
futuro per poter raccogliere i frutti auspicati e promessi.
7. La rifondazione del welfare e le politiche di wellness
Dalle cose dette, emerge un forte deficit delle politiche rispetto ai nuovi
rischi operanti in questa fase, ma anche alle attese diffuse di qualità della vita
sociale. Per superare tale impasse pare necessario pensare ad un “Grande Progetto”
che riponga il problema del welfare in termini adeguati all’era della
planetarizzazione, ossia di promozione della qualità sociale e della qualità
della vita, per quanto riguarda i processi e i fini, e di welfare community e
welfare society, per quanto riguarda gli assetti organizzativi.
Credo che si debba ragionare in termini di forme di welfare, per certi
aspetti, molto generalizzate e pre-categoriali e, per altre, molto articolate e decentrate.
E’ necessario inoltre pensare a progetti di wellness, ossia ad interventi
sui processi d’inclusione, di appartenenza, di differenziazione, che siano
modulati tanto sulla base di macro-processi quanto, soprattutto, articolati per
specificità locali, gruppali, particolari, fino al livello individuale.
Relativamente agli interventi di welfare, un primo piano molto generalizzato,
da estendere a livello europeo, dovrebbe includere i livelli essenziali di
reddito, assistenza, sanità, educazione. Una protezione ampia che dovrebbe
comprendere tutti i residenti-abitanti (definiti in varie forme), piuttosto che la
classica cittadinanza. Ad un secondo livello, il welfare federativo e territoriale
dovrebbe includere la disponibilità e l’utilizzo di forme ulteriori di servizi,
provvidenze e benefici attraverso miscele variabili di risorse pubbliche e partecipazione
dei cittadini.
Gli interventi di wellness, rappresentati da progetti mirati a sviluppare le
condizioni favorevoli per la coesione sociale e per la promozione della qualità
della vita, dovrebbero costituire il terzo livello di intervento. Essi dovrebbero
riguardare la lotta all’esclusione sociale e alle povertà, il contenimento delle
tensioni generate da comportamenti xenofobi e da altre forme di discriminazione,
il sostegno alle famiglie e alle donne nello sviluppo di progetti di genitorialità
e cura familiare, il sostegno allo sviluppo di varie forme associative e
di appartenenza. In particolare vanno sviluppate politiche di comunità capaci
di accrescere la fiduciarietà, la sicurezza, la cura, il benessere sociale.
Tali obiettivi sono raggiungibili attraverso lo sviluppo di un’economia sociale
guidata da specifiche regolamentazioni che ne salvaguardino la qualità,
ma anche con la promozione dell’ispirazione solidarista nel terzo settore e in
particolare nel volontariato.
Il secondo caposaldo di una tale politica è costituito dalle autonomie territoriali.
Il ruolo delle comunità locali (opportunamente dimensionate e aggregate)
è basilare nella promozione e nel coordinamento delle forze operanti
nelle specifiche aree.
L’integrazione europea, infine, è fondamentale affinché una tale politica
possa svilupparsi. Ciò in quanto la dimensione continentale è potenzialmente
abbastanza ampia e solida da poter invertire la perdita di potere subita dagli
stati nazionali, proponendo un’alternativa alla mercantilizzazione selvaggia e
alla caduta di protezione sociale. Oltre alle incognite della Costituzione europea,
rimangono tuttavia diverse resistenze sul piano delle politiche sociali nazionali.
L’obiettivo della coesione sociale rimane affidato a politiche d’inserimento
lavorativo e di contrasto all’esclusione economica piuttosto che ad interventi
complessi, dinamici e progettuali sui processi di benessere sociale e
qualità della vita.
Vi è quindi molto da lavorare perchè un tale “Grande Progetto” possa svilupparsi
aggregando consenso e nuove idee, ma si tratta di un cammino che
pare possibile e, per certi aspetti, già latente in molte iniziative locali e globali
1 L’esigenza di ripensare la concezione pubblica del benessere è da tempo avvertita,
ma le soluzioni sembrano oscillare fra “distribuzione oggettiva” di beni comuni e
soddisfazione soggettiva, magari da sostenere attraverso politiche specifiche. In questa
direzione sembra andare la proposta teorica e politica di D. Kahneman (et al.
1999), il primo professore di psicologia ad aver vinto un premio Nobel per
l’Economia (nel 2002), dopo aver messo a punto il National Well-being Account. Egli
sostiene che il benessere di un paese non si misura esclusivamente in base a indicatori
economici: la felicità dei cittadini è un elemento altrettanto essenziale per giudicare
della salute di una nazione. Il National Well-being Account è pensato come un indice
del benessere nazionale da affiancare ai parametri classici con cui valutare la Life satisfaction
di una popolazione. Questa impostazione, recentemente adottata dal governo
britannico in un rapporto che ha questo titolo, spinge per un intervento più massiccio
dello Stato per stimolare la gratificazione individuale.
2 Secondo Donati (2004) anche la cittadinanza societaria nell’epoca attuale dovrebbe
essere fondata sul fatto che il cittadino si senta soggetto “in un insieme di relazioni di
appartenenza” (ivi, p. 95), cioè venga trattato da cittadino in quanto membro di una
comunità locale, di una famiglia, di un’associazione e così via.
3 Sulla prospettiva relazionale nell’intendere la solidarietà si v. Colozzi 2002, Ranci
2003.
4 È piuttosto singolare, in questo quadro definitorio, che Putnam escluda il volontariato
e le attività di aiuto dal capitale sociale in quanto questo “riguarda le reti di relazioni
sociali – il fare con. Fare del bene per altre persone, per quanto lodevole, non rientra
nella definizione di capitale sociale” (Ib., p. 149). Di fatto tuttavia le recupera in
quanto esse sono un indizio di appartenza a reti sociali formali o informali. Anche
questa esclusione è segno di una qualche incertezza teorica del concetto: infatti se il
criterio è la creazione di rapporti di reciprocità generalizzata è difficile negare che il
“dono” sia volto, più o meno esplicitamente, a creare tali tipi di rapporti. Infatti, non
mi aspetto una reciprocità concreta e specifica dal beneficiario, ma piuttosto un miglioramento
dello stato dei rapporti sociali: è la dimensione “politica” e proambientale
del volontariato e di molte altre attività “comunitarie”, che si potrebbe esprimere, parafrasando
Putnam, nell’asserzione: “farò questo per te, non perché mi aspetti un ritorno
personale, seppur indiretto, ma per contribuire ad una generalizzazione, ossia
una propagazione del processo di dono fiduciario”). Per distinguerla dalla “generalizzazione
ristretta” proposta di Putnam, si potrebbe parlare, in questo caso, di “generalizzazione
allargata” o “ecologica”.
5 Putnam afferma che «La fraternità, per come la intendevano gli intellettuali democratici
francesi, era un nome diverso per ciò che chiamo “capitale sociale”» (Ib,, p.
431). Egli si riferisce in primo luogo a Toqueville, “patrono dei comunitaristi americani”
(ivi, p. 23). Sulla base di tali ispirazioni distingue fra società a basso/alto capitale
sociale e lo incrocia col criterio dell’alta/bassa tolleranza: i due “bassi” danno una
società anarchica, la combinazione di un “basso” e un “alto” rispettivamente la società
individualista e quella settaria, mentro solo la combinazione di due alti dà la comunità
civica, cioè una formazione sociale integrata e tollerante delle diversità.
6 In particolare misure igieniche pubbliche e private, miglioramento dell’alimentazione
e delle condizioni abitative, diffusione dell’informazione sanitaria, come già
aveva dimostrato Dubos (1968) a proposito delle malattie infettive tipiche della prima
parte del ‘900.
7 Le differenti prospettive interpretative si ritrovano anche sul piano metodologico della
misurabilità del benessere sociale. In alcuni casi si è ricorsi ad indicatori di spesa
nazionali come, ad esempio, l’Indice di salute sociale elaborato dal “Fordham Institute
for Innovation in Social Policy”, negli Stati Uniti, che valuta le risorse disponibili
in educazione, salute, sicurezza, assistenza sociale, cultura, un indice che dovrebbe
affiancarsi (come sostenuto in Italia da Giorgio Ruffolo) a quello del PIN. La via degli
indicatori sociali viene seguita anche in sede europea, senza tuttavia arrivare ad un
indice sintetico. Un'altra strada è sempre nazionale, ma di tipo “soggettivo”, come
nella proposta da Kahneman (et al. 1999) di creare il National Well-being Account (v.
nota 1). Le problematiche per molti versi sono simili a quelle relative alle rilevazioni
della qualità sociale-qualità della vita (v. scheda nella seconda parte del volume) e a
quelle del capitale sociale (v. par. 3). La via che mi sembra più adeguata è quella di
una rilevazione contestuale, all’interno di ambienti e territori, attraverso forme di analisi
fortemente partecipative, euristiche, collettive. Ciò che viene rilevato sono prevalentemente
le “notizie di differenza”, che non devono tuttavia essere limitate alle sole
questioni sociali emergenti in termini di rischi, ma altresì essere estese ad altri indicatori
“in positivo” di benessere organizzativo, di qualità sociale goduta, di soddisfazione
per i servizi offerti, di percezioni di inclusione e appartenenza, di punti forti della
propria comunità di appartenza. Il benessere sociale dovrebbe emergere, a mio parere,
più come trama connettiva di varie valutazioni che come indicatore sintetico, supportato
tuttavia da ricerche specifiche ripetibili e comparabili nel tempo all’interno di una
programmazione partecipata (v. varie schede della seconda parte).
8 Per una valutazione degli sviluppi del welfare in Italia nell’ultimo decennio articolato
per settori e problemi si veda: Vicarelli 2005.
9 Vi è anche chi ha sottolineato i fattori di opacità che sono insiti con le politiche di
governance e di partecipazione del terzo settore alla decisionalità politica (Vicari
Haddock 2005) o la difficoltà di definire oggi cos’è “pubblico” (Bifulco 2005): problemi
senz’altro aperti in un nuovo assetto delle politiche decise e realizzate attraverso
miscele di interpreti, progettisti, esecutori e valutatori. L’importante è tuttavia non
perdere l’aspetto sostanziale della questione costituito dalla creazione di beni comuni,
di cui i beni relazionali fanno oggi parte a pieno titolo, costituendone forse la chiave
di volta in quanto non più pensati come semplici benefici da ricevere, ma come qualità
da costruire congiuntamente.
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