L'evoluzione della Lingua Italiana nell'Ottocento -Approfondimento a cura di Luca Serianni
L'evoluzione della Lingua Italiana nell'Ottocento -Approfondimento a cura di Luca Serianni
«Si potrebbe dire che Alessandro Manzoni, attraverso I Promessi Sposi, sia stato l'inventore dell'italiano moderno.
Fino all'Unità d'Italia (1861) non esisteva una lingua parlata comune: la grande maggioranza degli abitanti parlava uno dei tanti dialetti che ancora oggi, per quanto indeboliti, si sentono in gran parte del nostro Paese.
Esisteva, naturalmente, una lingua scritta, con una storia secolare e illustre alle spalle: la lingua della letteratura, della scienza, del diritto, della religione. Era una lingua di impronta letteraria, anche se più vicina a quella parlata in Toscana (che è stata la culla dell'italiano, grazie ai grandi scrittori del Trecento: Dante, Petrarca e Boccaccio).
Manzoni volle creare col suo romanzo "una lingua viva e vera", per usare le sue parole, cioè una lingua che corrispondesse il più possibile a un idioma effettivamente parlato. Per far questo studiò attentamente la varietà parlata dalla borghesia di Firenze – cioè dell'unica varietà che, per i meriti storici del fiorentino, aveva la possibilità di essere accettata dagli altri italiani − e, con estrema pazienza, rivide la lingua della prima edizione dei Promessi Sposi (1825-1827), in vista dell'edizione definitiva (1840-1842), quella in cui noi oggi li leggiamo. Intervenne così su vari piani. Forme libresche vengono sostituite da forme moderne (aere diventa aria); varianti che, all'epoca, si usavano correntemente nella lingua scritta, vengono ridotte (di veggo e vedo, resta solo vedo); un certo numero di parole proprie dell'uso lombardo, che Manzoni non aveva evitato per ricercare, fin dalla prima edizione, un tono familiare, vengono sostituite da quelle fiorentine, che erano anche quelle più universalmente note (martorello è sostituito da sempliciotto). A Manzoni dobbiamo la definitiva affermazione dell'imperfetto cantavo, sentivo (prima di lui la forma dell'uso scritto e quella raccomandata dalle grammatiche, era io cantava, io sentiva); di lui, lei, loro usati come soggetti (chi di noi, parlando, dice più egli, ella, essi ed esse?); di cosa nelle interrogazioni, accanto a che? o che cosa? (cosa vuoi?).
Nei dialoghi dei personaggi Manzoni spinge al massimo questo suo adeguamento al parlato. «Noi altre monache, ci piace di sentir le storie per minuto» dice Gertrude, la "monaca di Monza". Se un ragazzo oggi scrivesse una frase del genere in un compito in classe, un "anacoluto", l'insegnante lo segnerebbe come errore.
Grazie all'importanza che il romanzo di Manzoni ha conquistato nella scuola dell'Italia unita, la lingua "viva e vera" promossa dallo scrittore si è affermata, in larga misura, come lingua nazionale, da adoperare, con le necessarie sfumature, in tutte le circostanze: per scrivere un libro, ma anche per parlare in famiglia.
E pensare che Manzoni non era fiorentino di nascita. Una volta ebbe a dichiarare che erano tre le lingue che conosceva perfettamente: il francese (la lingua che aveva segnato la sua giovinezza), il milanese (che adoperava a casa, anche sere ricevendo gli amici la sera) e il latino. Manca proprio l'italiano, come si può notare. Manca perché si può dire che un italiano adatto per essere usato nelle più usuali circostanze quotidiane quasi non esisteva; il merito di Manzoni, grazie al suo capolavoro, è stato quello di averlo creato».
Luca Serianni
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