"Quelli del colèra" della prof.ssa Rosa Maria Monastra

In una lettera dell’8 aprile 1890 all’amico Felice Cameroni, giornalista e critico letterario, Verga affermava di essere “manzoniano” assai più di quanto non lo fossero quelli che si dichiaravano tali senza avere realmente capito la complessità e modernità dei Promessi Sposi. Ed effettivamente in tante pagine dello scrittore siciliano, al di là delle differenze di linguaggio e di idee, si avverte un sotterraneo, continuo dialogo col romanzo di Manzoni.

Un esempio è costituito certamente dalla novella Quelli del colèra. Vi si racconta delle reazioni scomposte, irrazionali, aggressive, che si scatenano tra la gente in occasione di un contagio di cui non si conosce l’origine. Cosa accade in simili circostanze? Si trova un capro espiatorio: qualcuno che viene accusato di essere un “untore” pagato per la strage. Era appunto quello che si verificava nei Promessi Sposi durante la peste, è quello che si verifica nella novella di Verga durante il colera.

Il racconto verghiano è ambientato nel cuore della Sicilia, tra Regalbuto, Leonforte, Agira, Centuripe: con una specifica messa a fuoco su due paesetti denominati San Martino e Miraglia. Dovunque vanno crescendo le vittime del colera, e con esse le più sballate spiegazioni (le fake news, diremmo oggi). Sia a San Martino che a Miraglia la responsabilità viene scaricata sull’estraneo, sugli sconosciuti di passaggio, sulle «facce nuove»: una famiglia di comici ambulanti a San Martino, un’altra di zingari a Miraglia. Ed è un crescendo di violenza: a San Martino la folla si limita a bruciare tutto ciò che i comici portavano con sé, a Miraglia fa un massacro.

Ecco già una novità rispetto alla dinamica manzoniana: nella Storia della colonna infame, pubblicata in appendice ai Promessi Sposi, a fare le spese della follia collettiva (e della malafede dei giudici) erano alcuni disgraziati cittadini; nella novella di Verga l’innocente preso di mira è lo straniero, il diverso (proprio come accade oggi: la colpa di tutti i nostri guai è degli immigrati, oppure dei cinesi che – come qualcuno ha detto – mangiano topi vivi…). Ma la novità più importante sta nel modo di narrare: non c’è un narratore esterno, distaccato, che giudica e commenta, come nei Promessi Sposi. Qui il punto di vista è interno: grazie soprattutto al discorso indiretto libero (ovvero privo di un verbo che lo regga, come “dire”, “pensare”, ecc.), le assurde motivazioni dei paesani vengono messe in campo come se fossero di incontrovertibile evidenza: nemmeno il buonsenso del Capo Urbano sembra scalfirle. Il che non vuol dire che non ci sia qua e là qualche intrusione di un punto di vista differente, che possiamo dire dell’autore: i comici vengono infatti definiti dei «poveri diavoli», i paesani che cercano di salvarli sono «anime buone», mentre chi si arma contro di loro è un «malarnese» affiancato da «compagni della stessa risma». E poi c’è l’affresco oggettivo, terribile, della miseria e della disperazione delle vittime: soprattutto verso la fine, laddove ci viene descritta la vera e propria «caccia» all’uomo che avviene a Miraglia.

Già nei Promessi Sposi, a proposito dell’assalto ai forni durante la carestia, troviamo un’analisi di quel fenomeno di reciproca suggestione e istigazione che si verifica tra la folla nei momenti difficili. A Manzoni a ogni modo interessava soprattutto mettere in luce la possibilità che paura e malcontento venissero strumentalizzati da chi poteva guadagnarci. A Verga invece interessa cogliere il nesso tra ignoranza e violenza: non per nulla in Quelli del colèra per prima cosa i paesani imbracciano il fucile. E c’è da dire che negli ultimi anni del secolo il “contagio” morale che può avvenire in certe circostanze sarebbe stato oggetto di molti studi: a cominciare da quello del sociologo Scipio Sighele significativamente intitolato La folla delinquente (1891), dove appunto il potere suggestivo veniva posto alla base dei comportamenti criminali della folla.

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