Liliana Segre di Daniela Padoan


Milano 1930 - vivente
 
Ciò che posso dire di Liliana Segre è la mia soggezione. Perché Liliana porta in sé Auschwitz, e la severità che questo comporta. Lei sa che Auschwitz è accaduto, che Auschwitz ha potuto accadere.

Era una bambina di tredici anni, orfana di madre fin dall’età di un anno, e tuttavia felice, amata, viziata da un padre che, pur continuando a lavorare alacremente, aveva riposto in lei ogni ragione di vita. Con loro, a Milano, in corso Magenta, vivevano anche i due nonni paterni. Conducevano una vita agiata, frequentavano l’Ippodromo di San Siro, la domenica pranzavano con gli amici al Savini in Galleria; Liliana era una Piccola italiana, come tutte le bambine cresciute sotto il fascismo. Poi, nel 1938, le leggi razziali: le progressive limitazioni nel lavoro, il repentino voltafaccia degli amici, la consapevolezza delle umiliazioni subite dai grandi e inutilmente nascoste ai bambini, l’incomprensibile espulsione dalla scuola. «Mi restò per anni la sensazione di essere stata cacciata per aver commesso qualcosa di terribile, che in seguito tradussi dentro di me come “la colpa di essere nata”; perché altre colpe certo non ne avevo: ero una ragazzina come tutte le altre». Poi la guerra, i bombardamenti, la caccia all’ebreo. Un lungo periodo di vita nascosta, braccata tra la Brianza e la Valsassina, infine il tentativo di trovare la salvezza in Svizzera, e l’arresto al confine. «La storia di questa fuga grottesca la racconto sempre, quando vado a testimoniare nelle scuole, perché sulle prime mi sentivo un’eroina, sui valichi dietro Varese. Era inverno e attraversavamo i boschi, io e mio papà: passavamo il confine come clandestini, come animali sulle montagne. Eravamo liberi, pieni di speranza. Ma arrivati di là, un ufficiale svizzero tedesco ci trattò come degli imbroglioni, come delle cose orribili che capitavano proprio a lui, e ci respinse, ci consegnò agli italiani, condannandoci a morte». Fu un sollievo, paradossalmente, sentire che ciò che li attendeva non era più nelle loro mani: il senso che la continua, angosciosa responsabilità del futuro fosse finita. Ora spettava ad altri decidere della loro vita. Era l’8 dicembre 1943. Dal comando di Selvetta di Viggiù, Liliana e Alberto Segre vennero trasferiti nel carcere di Varese, poi in quello di Como e infine a San Vittore, a Milano, in quel Quinto raggio che il fascismo aveva destinato agli ebrei. Il 30 gennaio 1944, in una Milano indifferente, dove solo i carcerati si affacciarono alle finestre per un ultimo saluto commosso, i detenuti ebrei di San Vittore – più di seicento persone, tra cui quaranta bambini, inclusa Liliana – vennero caricati su una fila di camion coperti e condotti alla Stazione Centrale. «Il passaggio fu velocissimo: SS e repubblichini non persero tempo: in fretta, a calci, pugni e bastonate ci caricarono sui vagoni bestiame. Non appena un vagone era pieno, veniva sprangato e portato con un elevatore alla banchina di partenza. Fino a quando le vetture furono agganciate, nessuno di noi si rese conto della realtà. Tutto si era svolto nel buio, nel sotterraneo della stazione, illuminato da fari potenti, tra grida, latrati dei cani, fischi e violenze terrorizzanti. Nel vagone buio c’era solo un po’ di paglia per terra, e un secchio per i nostri bisogni» [1] .
Dopo una breve sosta nel campo di transito di Fossoli, il convoglio n. 6 – che viaggiava sotto la sigla RSHA del Reichssicherheitshauptamt, l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich – si mise in moto per destinazione ignota. Arrivò ad Auschwitz il 6 febbraio 1944. Dei 605 prigionieri ebrei, circa cinquecento vennero mandati al gas e bruciati dopo poche ore. Al momento della selezione sulla rampa, mentre gli uomini venivano rapidamente divisi dalle donne, Liliana avrebbe sentito la mano del padre sciogliersi dalla sua; lo avrebbe visto allontanarsi, senza sapere che sarebbe stata l’ultima immagine che avrebbe conservato di lui. Selezionata per il lavoro schiavo, tatuata con il numero di matricola 75190, cominciava – nella ferita di una separazione impossibile, impensabile – la sua vita di tredicenne in un mondo di fango, di sopraffazione e morte. L’apprendistato della sopravvivenza fu per Liliana soprattutto estraniazione: non vedere, seguire il cammino dei propri zoccoli tra le baracche, senza mai acquisire l’orientamento. Una strategia radicale la guidava: ignorare con tutte le proprie forze quel mondo inaudito; scegliere una stella in cielo da ritrovare la notte, per avere un appiglio e un luogo al di fuori del filo spinato; non affezionarsi a nessuno, perché qualsiasi altra perdita sarebbe stata insopportabile. Eppure tutto sarebbe stato registrato, nella sua mente di bambina, come dal più sensibile dei sismografi, per essere sottoposto a scomposizione e interrogazione morale per il resto della vita. Quando, negli anni della prima maturità, avrebbe cercato di far sì che la sua esistenza riprendesse il corso della normalità, ormai moglie e madre di tre figli, i momenti in cui aveva scelto la vita sarebbero tornati a visitarla come domande poste da un tribunale interiore: aveva provato sollievo durante la selezione, quando non era stata scelta per il gas, mentre Janine, sua compagna di lavoro nella fabbrica di munizioni, veniva chiamata fuori dalla fila. Non si era nemmeno voltata a salutarla, felice di essere viva. Quella semplice, primaria felicità si cristallizzerà come un verdetto di colpa col quale fare i conti per il resto della vita: il rovello che sopravvivere abbia significato una caduta, una mancanza; che il male l’abbia macchiata. Così l’universo della sopraffazione, il mondo dove l’uomo ha eretto il male a misura e legge, diventa per Liliana il luogo del giudizio: anche su se stessa. Non che non le sia evidente la colpa dei carnefici e l’innocenza delle vittime: questa chiarezza in lei è addirittura un urlo. Ma sa che è necessario giudicare a ogni passo, se stessi e gli altri, benché essere uomini sia un continuo cadere. Si è molto scritto della filosofia dopo Auschwitz, della necessità del pensiero di incontrare l’enormità di ciò che è stato: Liliana è ai miei occhi il luogo filosofico di quell’incontro, un magma incandescente di pensiero eternamente arroventato dalla consapevolezza che “questo è stato”.
Per questo – ancora più che per la sua instancabile e feconda opera di memoria – è pienamente una testimone: nel suo risentimento, nel suo risentire senza remissione l’offesa portata a se stessa, a quelli che chiama “i miei santi martiri” e a tutte le vittime della Shoah, ha fatto di sé un luogo memoriale. Ed è pienamente una sopravvissuta, una figura segnata dal portare in sé il senso della sopravvivenza: vivere comunque, senza fare del male a nessuno, ma non lasciarsi uccidere. Vivere nonostante il dolore, l’incomprensione, e l’immenso, insanabile stupore. Vivere come scelta etica, come sopravvivenza dell’umano. Accogliendo giorno dopo giorno la necessità di addomesticare il ricordo e i suoi soprassalti, senza poter mai davvero trovar requie dall’enormità dell’esperienza; senza riparo dalla sofferenza che questa colpa, come scriveva Levi, sia stata irrevocabilmente introdotta nell’universo degli uomini.
Capace di improvvise risate, di fulminanti battute di spirito, di giudizi taglienti, di un’attenzione pronta a percepire ogni cambio di registro comunicativo, Liliana è un sismografo del presente, eppure i suoi occhi sembrano contenere il buio, la notte. «Per capire Auschwitz ci vorrebbero molte vite» dice spesso, ma a guardare i suoi occhi fondi è come se le avesse percorse tutte: ha dovuto abbracciare e consolare la bambina che era e, una volta diventata madre e nonna – sconfiggendo orgogliosamente la perversa ideologia che avrebbe voluto cancellare dal mondo lei e la sua discendenza – accogliere in sé dapprima la figura del padre e poi quella dei nonni, in una progressiva maternità che cancella la distanza tra le generazioni. Come una necessità di farsi rifugio e difesa per tutte quelle figure della memoria, man mano che la rivisitazione dei ricordi prende altre stratificazioni di significati: lo scoramento del padre per non averla potuta proteggere diventa – ora che sa cosa significhi voler proteggere i propri figli – il suo stesso scoramento per non aver potuto salvare quella figura amata, morta a quarantaquattro anni, la stessa età del suo secondogenito; la fatica dei nonni nel salire il predellino del vagone bestiame – spinti e picchiati – risentita quasi nelle ossa man mano che le sue stesse movenze si fanno più caute; la solitudine di Janine, diventata nel tempo sorella e poi figlia, da riaccogliere e confortare ogni giorno in un abbraccio materno.
Ogni volta che racconta, Liliana deve scegliere parole che rendano per quanto possibile comunicabili le immagini di alcune tra le innumerevoli vittime alla cui sopraffazione ha dovuto assistere. Alcuni giorni prima che l’esercito sovietico entrasse ad Auschwitz, il 27 gennaio 1945, fu costretta dai soldati nazisti – insieme agli ottantamila internati ancora capaci di reggersi in piedi – a incamminarsi verso la Germania, in una marcia forzata che divenne nota come Marcia della morte, perché le strade innevate della Polonia erano disseminate dei cadaveri dei prigionieri che non avevano retto alla fame e al gelo, o che erano stati finiti dalle SS con un colpo di pistola. Venne liberata a Malchow, un sottocampo di Ravensbrück, il 30 aprile 1945. Quando tornò a Milano, della sua famiglia si erano salvati solo i nonni materni e uno zio. Delle 605 persone del suo trasporto, solo venti fecero ritorno [2]. Questa moltitudine di vittime cancellate dal mondo abita Liliana e costituisce la sua sola etica e religione. Non ha necessità di una fede, di catechismi, di edificazioni morali: tutto ciò che rassicura i nostri passi nel mondo – i concetti di umanità, diritto, cultura, cullati nei secoli – si è dissolto davanti ai suoi occhi, eppure deve continuare a credere che essere uomini abbia un senso.
Per questo Liliana è inamovibile dal mare di buio che ha negli occhi. Lì è la sua misura, ed è una misura che porta ovunque, presentandosi come un convitato di pietra, difficile da eludere, perché Auschwitz non è un passato, un capitolo dei libri di storia: è il numero tatuato sul suo avambraccio, orgogliosamente mostrato come una cifra identitaria, divenuta scelta e destino. «Noi sopravvissuti siamo soprattutto il nostro numero. Prima del mio nome viene il mio numero: 75190. Perché non è tatuato sulla pelle, è impresso dentro di noi, vergogna per chi lo ha fatto, onore per chi lo porta non avendo mai fatto niente per prevaricare; essendo vivo per caso, come lo sono io» [3].
Liliana sa che l’uomo è una costruzione fragile che va protetta e alimentata, e per questo affronta il dolore, la fatica della testimonianza, anno dopo anno, anche di fronte al sospetto della sua inutilità. Il suo narrare è diventato una fucina di metafore e di immagini. Ha continuato a esaminare, a scandagliare i concetti che esprime, a verificarne la solidità e l’efficacia, a mettere alla prova i ricordi anche nei più minuti dettagli, confrontandosi con quella che è diventata un’amica insostituibile, Goti Bauer, anch’essa deportata ad Auschwitz-Birkenau nel 1944, che la convinse a testimoniare e la sostenne nei suoi primi racconti in pubblico. Da allora, Liliana Segre è diventata una testimone importantissima, amata, richiesta in tutte le scuole. L’autorevolezza della sua figura pubblica è stata riconosciuta dall’attribuzione di molte e prestigiose onorificenze, lauree e medaglie, che tuttavia su di lei fanno un effetto incongruo: come incoronare un’aquila, o un ermellino bianco, per usare l’immagine con cui una volta descrisse se stessa, ragazza, al ritorno da Auschwitz: grassa, gonfia (pesata dai soldati inglesi era poco più di trenta chili; dopo quattro mesi in un campo profughi americano era aumentata di quaranta chili per un violento scompenso ormonale), incapace di dormire su un letto, abituata al gergo dei soldati, accettata a stento dai pochi parenti rimasti perché “sconveniente”, non più ragazza di buona famiglia ma figura anarchica, ingestibile, imbarazzante: un ermellino uscito dalle macerie dell’umano. Ed è proprio in questo sapere che il cielo è cenere, e nel suo continuare a portare in sé l’umano, nel suo farsene pienamente carico, che si dà il miracolo che l’esistenza di Liliana ci consegna.

Onorificenze e riconoscimenti
27 novembre 2008, laurea honoris causa in Giurisprudenza presso l’Università di Trieste
15 dicembre 2010, laurea honoris causa in Scienze pedagogiche presso l’Università di Verona
7 dicembre 2010, Ambrogino d’Oro della Città di Milano
Nel gennaio del 2018 è stata nominata Senatrice a vita

NOTE

1. Milano Centrale, binario 21. Destinazione Auschwitz, a cura di Andrea Jarach, Proedi Editore, Milano 2004. Proprio al Binario 21, il 26 gennaio 2010, per il Giorno della memoria, è stata posata la prima pietra di quello che sarà il Memoriale della Shoah di Milano.
2. Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria, Mursia 2002.
3. Testimonianza di Liliana Segre, Conservatorio G. Verdi di Milano, Giorno della memoria 2010.

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