"Morti" del giornalista Domenico Quirico

Domenico Quirico è un giornalista italiano, reporter per il quotidiano torinese La Stampa, caposervizio esteri. È stato corrispondente da Parigi e inviato di guerra. Si è interessato agli eventi della  Primavera araba

I morti 

Per favore, per una volta invece dei vivi, dei migranti vivi, quelli che ci ingombrano, che non sappiamo ripartire come armenti, dei flussi, degli utili e degli inutili, degli aventi diritto e dei clandestini, si abbia il pudore di non parlare. Contiamo gli altri, i morti, i migranti morti. Guardiamo il mare, un chioccolio di acque calme, l’acqua viva, qua e là, di chiazze iridescenti di petrolio. Uomini portano a riva piccoli cadaveri con vestiti colorati. Diciamo la verità: non sapremmo enumerarli tutti questi morti. Sono tanti, sono dappertutto, in ogni lembo del Mediterraneo, ieri davanti alla Libia e a Lampedusa e nelle acque delle isole greche. Se ci provassimo a contarli, i morti, quelli che rientrano nelle statistiche, ebbene ne dimenticheremmo sempre la metà. Forse di più, quelli che non sappiamo, i naufragi senza nome, di cui non abbiamo trovato i segni. Sì. Parliamo dei morti. Se ne abbiamo il coraggio.

Attenti. Ne avete chiacchierato amabilmente, mentre loro affogavano davanti alle tavole, imbandite dei vostri vertici. Così: numeri, piccole battaglie diplomatiche, la limatura geniale e grottesca di un aggettivo, volontario…. non volontario, destini umani. Attenti perché i morti sono implacabili. Con i vivi si può essere avari: ma con i morti no.

Dove sono le vie di uscita per aggirarli, per far finta che non esistano? Dove li possiamo nascondere , in preda al comodo oblio, le storie di ciò che sono stati? Non basteranno gli occulti mattatoi degli anni, i ghirigori delle competenze, la carta bollata del tocca a te, la geografia dello scaricabarile diplomatico. I morti sono lì, implacabili, irrimediabili. Ci guardano. La solitudine c’è, forse, solo per i vivi. Rispetto ai morti non c’è solitudine, i morti sono sempre qui.

Quelli di ieri, e gli altri prima di loro, si insinueranno in ogni nostra singola ora. E’ il loro destino, la loro vendetta. Ci chiederanno conto: chi siete voi? La vita anche la mia, le nostre non è sacra per voi? Uccideranno, loro, le nostre bugie. Fino a quando ci scopriremo anche noi morti. Raccontano che i naufraghi sono rimasti a lungo in acqua aspettando i soccorsi, prima di affogare. Nascondiamo, per favore, almeno per oggi i vuoti documenti di Bruxelles, le millanterie, il falso vigore della chiacchiera. Parliamo soltanto di quel tempo che hanno passato in mare: quelle che sono le ore che contano tra la vita e la morte. Proviamo a immaginare qual era l’oggetto più prezioso che si erano portati dietro su quella barca dannata, l’ultimo frammento, si illudevano del loro viaggio infinito: un paio di scarpe, un telefonino, una foto del villaggio, di una madre? I naufragi dei migranti, la loro immondizia santificata dalla morte.

Non neghiamo nulla, non saltelliamo via. Salveremo ciò che siamo solo se sapremo guardare questi morti, immutabili, ormai lacerati dalla sofferenza, ma non sfigurati, caparbi, immortali.

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