Donne che hanno contribuito all'Unità d'Italia-Antonietta De Pace di Nadia Verdile
Antonietta De Pace
La madre di Antonietta, Luisa Rocci Cerasoli, aveva ideali repubblicani; il padre Gregorio, banchiere napoletano, morì in circostanze misteriose, forse avvelenato dal suo figlio adottivo, che voleva acquisirne gli averi.
Insieme alle sorelle Chiara, Carlotta e Rosa, fu collocata nel monastero delle clarisse di Gallipoli. Private della loro eredità, furono “sistemate” con contratti matrimoniali laddove fu possibile. Antonietta andò a vivere con la sorella Rosa quando questa sposò Epaminonda Valentino, chiamato comunemente Mino, repubblicano convinto. Così, seguendo le orme del cognato, forte di una contiguità di ideali, Antonietta divenne membro attivo della mazziniana “Giovine Italia”. Mino, di cui Antonietta fu una valida collaboratrice, era un commerciante e utilizzava questo suo lavoro come copertura per tenere i contatti con le varie organizzazioni carbonare sparse nel Regno delle Due Sicilie. A gennaio del 1848 Ferdinando II di Borbone concesse la Costituzione, molti credettero che il re si fosse convertito al costituzionalismo. Non era di questo parere Antonietta, convinta che nessun sovrano e nemmeno nessun papa potevano essere portatori di istanze repubblicane; perché avrebbero dovuto lavorare contro di sé?, si chiedeva la De Pace, che non era facile agli entusiasmi e aveva ben compreso i meccanismi della politica. I fatti non tardarono a darle ragione; quattro mesi più tardi, il 15 maggio del ’48, Napoli conobbe una giornata di sangue, centinaia furono i morti. La Guardia Nazionale fu sciolta, venne imposta la legge marziale e molti deputati fuggirono. Fu così che Valentino, leader della sommossa salentina, giudicato cospiratore, fu arrestato; con lui altri patrioti salentini e morì in carcere a Lecce, all’età di 38 anni. Fu espropriato il palazzo in cui viveva la famiglia che si trasferì a Napoli. Mentre la vedova cercava di rimettere in piedi le finanze familiari, Antonietta si dedicò a tessere una tela di relazioni, connotata da una forte presenza femminile. Divenne una sorta di coordinatrice tra i rivoluzionari che erano ancora in libertà, quelli che ancora giacevano nelle carceri e quelli che invece si trovavano in esilio. Le donne furono l’anima di quella resurrezione giacobina che poi diede vita al movimento che appoggiò l’arrivo di Garibaldi e ne favorì l’entrata in Napoli. La De Pace mise insieme patriote della statura di Antonietta Poerio, l’irlandese Emily Higgins, Raffaella Faucitano, Aline Perret, Costanza Leipnecher, Nicoletta Leanza. Grazie alla Poerio, ella divenne pedina decisiva sullo scacchiere che vedeva giocare Napoli, Torino e Roma. Si trasferì presso il centro di accoglienza per donne della buona società napoletana, nella basilica di San Paolo. Per sostenere l’affitto, si fece accogliere come corista. Così di giorno dava la sua voce alla fede, di notte dava voce agli ideali, portandoli nei segreti luoghi della Carboneria. Intrattenne rapporti politici col console inglese Henry John Temple, tenne relazioni con l’ambasciata sarda, dove si procurava i giornali che si pubblicavano nello Stato sabaudo, come «L’Opinione di Torino» e il «Corriere Mercantile» di Genova. Collaborò con l’avvocato tarantino Nicola Mignogna, che presiedeva il comitato napoletano della Carboneria, e nel 1849 fondò un Circolo femminile, costituito da un élite di donne nobili e alto borghesi, i cui familiari si trovavano nelle carceri del Regno con l’accusa di tradimento dello Stato. Divenne amica di Luigi Sacco, cameriere in servizio sulle navi che percorrevano la tratta Marsiglia – Genova – Napoli, e per suo tramite faceva pervenire segrete informazioni a Giovanni Nicotera, che si trovava a Genova. Dalla città ligure, via Lugano, esse arrivavano a Mazzini, nella capitale britannica. Nel 1854 andò a vivere da sola in un piccolo appartamento dove fu poi arrestata, il 26 agosto 1855, dalla polizia del Regno. Fu accusata di cospirazione e tradotta nella prigione femminile di Santa Maria ad Agnone. Quarantasei le udienze del suo processo; l’attenzione dei media fu alta, tanto che anche la stampa straniera, in particolare il ««Times» e il «Débats» lo seguirono. Rea politica poiché accusata di cospirazione repubblicana, fu tenuta in isolamento in una cella singola. A difenderla ci fu uno stuolo di avvocati partenopei di chiara fama repubblicana, tra questi Francesco Castriota Scanderbeg ed Enrico Pessina. Uscì dal carcere, con la condizionale. I suoi compagni di sventura furono mandati al confino perché giudicati colpevoli anche se non di cospirazione. Di questo processo si parlò a lungo soprattutto perché faceva notizia il fatto che a subirlo fosse stata una donna e borghese. Ma se qualcuno aveva pensato di aver fiaccato la passione e gli ideali della De Pace si sbagliò. Sebbene fosse in regime di libertà vigilata, Antonietta rimise in piedi tutti i contatti con le donne del Circolo femminile da lei voluto, le quali tennero rapporti con il comitato mazziniano di Genova. La loro sede logistica era a Villa Poerio. Antonietta teneva i fili tra il Comitato mazziniano napoletano e quello salernitano. Il 7 settembre 1860 Garibaldi, con soli ventotto reduci e due donne, Emma Ferretti e Antonietta De Pace, entrò a Napoli. Il generale nizzardo le affidò la direzione dell’ospedale del Gesù, mentre a tutti gli altri nosocomi napoletani fu preposta Jessie White, la giornalista inglese che aveva sposato Alberto Mario. L’impegno senza tregua la fece ammalare e, per ordine di Garibaldi, le fu concessa una pensione di venticinque ducati al mese, come parziale risarcimento per i danni e le sofferenze patite in nome e per conto della causa unitaria. È del ’58 l’incontro con quello che sarebbe diventato il suo compagno di vita: Beniamino Marciano, un liberale di Striano, che per un certo tempo aveva vestito l’abito talare, conosciuto quando questi si era trasferito a Napoli, andando ad abitare nel suo stesso palazzo. Si sposarono molti anni più tardi, nel 1876. Non erano Napoli e la fine del regno l’ultimo sogno di Antonietta; dopo la nascita del Regno d’Italia ella pensava a Roma e al Veneto ancora mancanti all’appello unitario. Perciò, negli anni che seguirono, ricreò un Comitato di donne in lotta per Roma capitale, di cui facevano parte ancora Aline Peret, e poi Luisa Papa, Enrichetta Di Lorenzo e Teodora Muller. Durante la battaglia per Roma italiana, fu arrestata dalla polizia pontificia, sul treno che la stava conducendo a Firenze. Portava in parlamento una proposta di sommossa contro lo Stato pontificio con uomini guidati da Giovanni Nicotera, disposti ad entrare nell’agro romano attraverso il varco di Ceprano. Anche questa volta la sua straordinaria capacità di distruggere sapientemente le prove le consentì di aver salva la vita. Quando a Napoli fu eletto sindaco il progressista Paolo Emilio Imbriani, le affidò l’incarico di ispettrice scolastica mentre il marito fu nominato assessore alla Pubblica Istruzione. L’impegno politico divenne in seguito sempre meno intenso: sfiducia e disillusione l’assalirono davanti agli opportunismi della politica di Palazzo. Morì il 4 aprile 1893 a 76 anni.
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